Pubblichiamo la dichiarazione di voto del sen. Roberto Menia, responsabile del dipartimento italiani all’estero di FdI e segretario generale del CTIM, in occasione della discussione oggi in Senato sul ddl cittadinanza.
“Devo dire che nel fare questa dichiarazione di voto, con la quale sosterrò, a nome di Fratelli d’Italia, il decreto-legge che stiamo convertendo, parto da una prima considerazione. Capisco che, nelle dinamiche parlamentari e nell’esigenza di sostenere la polemica politica, si possano usare banalizzazioni come quelle che ho appena sentito, quella di un Governo che avrebbe adottato una volontà ritorsiva per punire quegli italiani all’estero che votano in maggioranza a sinistra. Pietoso, patetico sostenere un argomento di questo genere. Tra l’altro, in conclusione dello stesso intervento, ho sentito citare Mirko Tremaglia, patrimonio, sì, della destra italiana, al quale voglio dedicare un ricordo, così vi spiegherò chi era.
Era un non pentito della sua vita (non ci piacciono i pentiti) ed era uno che ci ha insegnato tante cose. Lo sapete perché andò ad intraprendere quella grande battaglia che, tra l’altro, ha portato ad avere in Parlamento i rappresentanti dell’italianità nel mondo, che non sempre l’hanno illustrata? Illuso e sognatore com’era – come capita a tanti di noi di essere illusi e sognatori – immaginava che avrebbe portato la crema dell’italianità. Non sempre è arrivata la crema dell’italianità qua dentro, come sapete. E sapete anche che tuttora quel voto che noi operiamo attraverso la corrispondenza ha larghe, larghissime fasce di grigio, e non dico di più.
Mirko Tremaglia si innamorò di questa battaglia, perché nel 1968 andò a cercare la tomba di suo padre, che era morto in prigionia ad Asmara. Trovò quella tomba e la trovò con i fiori freschi. Si chiese allora chi avesse messo dei fiori freschi a suo padre e scoprì che quei fiori freschi li portavano gli italiani che erano rimasti là. Io da lui ho imparato tante cose e, come lui, da decenni ho imparato a conoscere e ad amare le nostre comunità all’estero. Ho conosciuto i nostri minatori di Marcinelle, sono andato a vedere quelli che vivono ancora nelle baracche in Germania; e poi sono andato più lontano, ho trovato quelli che andavano a tagliare la canna da zucchero tra i coccodrilli nel Queensland, in Australia, li ho incontrati ad Adelaide e li ho visti a Melbourne. Ho visto quelli finiti lontano lontano. Ho visto quelli del Brasile, sì. Voi sapete che in Brasile si sono 32 milioni di oriundi, per esempio, e che la sola città di San Paolo ne conta probabilmente 10 milioni.
Ho visto quelle città che si chiamano Nuova Bassano, Nuova Padova, eccetera. Nel Rio Grande do Sul c’è il talian, il dialetto veneto arcaico che parlo anche io, per cui li capisco bene; hanno difeso questa bella tradizione italiana. Sono stato in Argentina e ricordo la mia visita a Unione e Benevolenza, che conserva non soltanto tanti reperti garibaldini. Ho visto per esempio i temi e i pensierini dei bambini che dedicavano il loro pensiero ai bambini del terremoto di Messina del 1908. Ho visto la mitraglietta di Francesco Baracca, conservata a Montevideo, per esempio. Sono andato nella Cordigliera delle Ande in Perù. Li ho visti in Canada, nell’Ontario, a Montreal. Li ho visti a New York: quanti avevano fatto la quarantena di Ellis Island! Li ho visti ad Asmara, di cui parlavo, ma anche ad Addis Abeba, dove sono andato alla scuola italiana, come la vecchia scuola italiana. Quanti ne ho visti e quante cose ho imparato.
Conosco questo mondo, ne conosco le luci e le ombre. Le luci sono tutte quelle che illustrano l’italianità nel mondo, i nostri italiani, la nostra gente e le nostre invenzioni, le nostre realizzazioni, la nostra lingua, il made in Italy, la nostra cultura, il nostro stile, la nostra bellezza, la ricerca, la conservazione delle radici o delle tradizioni, il legame con la terra d’origine, la cultura, la musica, i gusti, i valori religiosi di cui siamo permeati. Non è soltanto storia di un tempo, ma è la storia di oggi: c’è la nuova emigrazione italiana, che non parte come un tempo con Paesi interi, ma parte atomizzata.
Voglio dire che l’italianità non è soltanto sangue. Qui molto si è parlato di ius sanguinis. L’italianità non è un concetto così materiale, così biologico, ma è un’altra cosa. È un concetto spirituale, è una concezione spirituale, quella dell’italianità, che si riversa anche sulla cittadinanza. Sono i valori che afferma e il contenuto quasi metafisico, l’identità, la condivisione della storia, della cultura, dei valori. La cittadinanza è soprattutto ed anche non solo diritti reclamati, ma doveri.
Penso a una definizione bellissima di Renan sulla Nazione – perché la cittadinanza connette alla Nazione, all’appartenenza allo Stato. Egli scrive: la Nazione è un plebiscito e soprattutto essa «si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che siamo disposti a compiere insieme». Ecco perché essere italiani sta anche nel senso di orgoglio e privilegio. Non interpretate male quello che voglio dire: essere italiani è un privilegio per tutto ciò che rappresentiamo; siamo baciati da Dio (Applausi), e io questo orgoglio lo sento e ce l’ho. Questa concezione, vorrei dire quasi sacrale, della cittadinanza – lo ripeto – non può essere solo sangue né può essere solo suolo; lo dico a quelli che reclamano il diritto di affidare la cittadinanza a chi nasce in un posto e basta. La cittadinanza è spirito prima di tutto, è cultura, appartenenza e identità; non è né sangue né suolo; è parte di questo e di quello per quanto è possibile.
La cittadinanza non è un fatto solo burocratico: l’italianità non è un passaporto. Il passaporto italiano è molto ambito in questo mondo. Con il passaporto italiano entri negli Stati Uniti, dove molti non possono accedere. Con il passaporto italiano sei cittadino europeo e puoi girare tutta l’Europa. Entri con quel passaporto e poi in Italia non ci vieni magari, perché si scelgono di solito altre mete, però si usa quel passaporto.
Parliamo anche di questo: perché interviene il decreto-legge in esame? Perché queste sono le ombre. Ci sono molti italiani, gente con cittadinanza italiana, che non illustrano l’Italia. C’è la corsa al passaporto: pensate che solo negli ultimi tre anni abbiamo riconosciuto più di 2 milioni di cittadinanze e che attualmente abbiamo 7,2 milioni di italiani iscritti all’AIRE. Ci sono agenzie che si gonfiano di milioni in un traffico milionario disgustoso sulle cittadinanze italiane vendute a 5.000-10.000 euro. Addirittura c’è la vendita all’asta degli antenati; andata a fare le ricerche e ve le trovano. Ci sono cittadinanze reclamate per via di sangue portando un avo, vero, presunto o falso, andato nel 1870 in Brasile o in altre aree, di sei generazioni addietro. Poi ci sono le false residenze in Italia, i funzionari collusi, i vigili urbani comprati, i tribunali intasati di ricorsi per la cittadinanza, il contenzioso continuo, i Comuni intasati. Tutto questo succede.
Fate finta di non saperlo e tutto questo sarebbe amore per l’italianità? Ma per favore, non dite che denunciamo fatti veri. E lo diciamo e abbiamo il diritto di dirlo proprio per quella concezione – vi ripeto – sacrale che abbiamo della italianità. Ma l’avete visto lo sconcio del Black Friday della cittadinanza italiana, paghi uno e prendi due, la moglie non paga, Barbie con la bandiera? Ma le avete viste queste porcherie? Avete visto i negozi con scritto in vetrina “qui si vende la cittadinanza italiana”? Se non le avete viste, vi prego di farvi un giro. Questo mercimonio lurido della cittadinanza italiana non è pensabile che continui. Così non si può, questo non è amore per l’Italia. Ecco perché era necessario intervenire, come ha fatto il decreto-legge del Governo.
Con l’interpretazione che fino ad oggi abbiamo dato della ininterrotta trasmissione iure sanguinis della cittadinanza, oggi abbiamo 54 milioni di italiani in Italia e potenzialmente 80 milioni di italiani fuori dall’Italia. Lo sapete? È chiaro che su questo bisognava intervenire. La legge, tra l’altro, non deve guardare soltanto alle memorie di cui vi ho parlato, la legge non guarda solo al presente o al passato, ma deve guardare al domani. Sapete, per esempio, che esistono decine di migliaia di bengalesi registrati a Londra, tutti con cittadinanza italiana? Sapete quante pachistane stanno figliando attualmente in Pakistan creando cittadini italiani? Sapete quanto questo avverrà anche nelle prossime generazioni? È opportuno o non è opportuno intervenire? La cittadinanza si regala oppure si è figli e si ha diritto di meritarla?
Vi leggerò un passo che ha scritto un uomo che io ammiro tanto, che si chiama Claudio Antonelli ed è esule da Pisino d’Istria, terra a cui voglio tanto bene. Vedete, gli esuli e gli emigranti hanno una cosa in comune: finiscono in patrie lontane e se ne ricostruiscono una nuova e diversa. Claudio Antonelli – il fratello di Laura Antonelli, che chi ha la mia età probabilmente ricorderà – scriveva: «Chi, per le vicende della vita, si è spinto oltre i confini di quell’identità che era sancita da consuetudini spesso secolari, feste, riti, ricorrenze, dialetto, piatti tipici, si è accorto, con il passare degli anni, di aver perso un tesoro. La sua identità originaria si è rarefatta, trovando posto in una nuova identità, forse più ampia ma tormentata, più incerta ed incolore. Lo sradicamento è una partenza senza ritorno».
Che cosa vuol dire? Lo confessa uno che ha fatto questa vita, che poi ha un figlio e poi avrà un nipote, cioè che mano a mano che passa il tempo si attenua il legame con quella che era la tua origine e gli elementi costitutivi, mano a mano nelle generazioni.
Quando studiamo in diritto pubblico che lo Stato è costituito da popolo e territorio, diciamo proprio questo: mano a mano che ti scolleghi da quel popolo e mano a mano che ti scolleghi da quel territorio, inevitabilmente diluisci questa identità e, tra l’altro, in questo mondo così mobile, voi che avete parlato della doppia cittadinanza, ponetevi proprio il problema di quelli che avranno tre, quattro, cinque, sei cittadinanze, se non si provvede. A quale cittadinanza faranno fede? Cosa farai, in un mondo in guerra, quando domani, per esempio, ti troverai con la tua coscienza a decidere da che parte stare? Sono tutte questioni che pongo e che purtroppo derivano dalla descrizione oggettiva. Lo dice uno che ama l’Italia e gli italiani che difendono l’italianità e che la conservano e la riconquistano ogni giorno.
Lo volevo dire alla fine, ma ve lo dico adesso. Goethe, in «Viaggio in Italia», scrive una cosa bellissima: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero». Questo è proprio il senso di quello che vi stavo dicendo. Se tu non si è in grado di riconquistare quell’identità, la si perde e che sarà? A chi dice che bisogna tutelare l’italianità nel mondo, rispondiamo che la tutela dell’italianità non è un passaporto regalato e lo dico anche a chi oggi ci fa votare su un referendum con il quale vorrebbe dimezzare il tempo richiesto per poter diventare cittadino italiano. Per non parlare dello ius soli. Detto tutto questo, lasciatemi dire ancora una cosa, che accennavo nell’illustrazione degli ordini del giorno.
Ero stato promotore di un emendamento, votato dalla 1ª Commissione, che legava il riconoscimento della cittadinanza anche alla conoscenza della lingua. La nostra è una lingua magnifica, la più bella del mondo. Nonostante parliamo la lingua di Dante, siamo paradossalmente uno dei pochi Paesi che non ha inserito in Costituzione il riconoscimento della sua lingua. Su questo la lingua è fondamentale.
Rivolgo un invito al Governo. Visto che dopo questo decreto discuteremo e voteremo il disegno di legge ampio sulla cittadinanza, chiedo di immaginare di rendere costitutivo l’elemento della conoscenza della lingua come connessione all’identità e alla cittadinanza italiana.
Come ci insegnava Gioberti, «si ricordino tutti, cui cale della Patria comune, che, secondo l’esperienza, la morte delle lingue è quella delle nazioni». Tu sei cittadino se sei figlio di una Nazione, se non parli quella lingua è difficile che tu possa esserne cittadino”.