Pubblichiamo l’intervista che La Voce del Popolo ha realizzato con il Segretario Generale del Ctim, Roberto Menia.
“Lei è di Fiume?”. Inizia con una domanda dell’intervistato – e il riferimento ad alcuni amici e conoscenti comuni, come il fiumano Fulvio Varljen, presidente della Comunità degli Italiani di Palazzo Modello nei primi anni Novanta, del difficile dopo Jugoslavia, dell’esplosione del nazionalismo croato, della guerra in Croazia e lui, medico anestesista, inviato sul fronte in Lika, oppure Amleto Ballarini e Marino Micich, della Società di Studi fiumani a Roma – il colloquio con Roberto Menia, il “padre” della legge dello Stato italiano che dieci anni fa istituì il Giorno del ricordo, scegliendo il 10 febbraio di ogni anno come solennità civile nazionale in cui commemorare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-fiumano-dalmata. La proposta di legge, di cui primo firmatario fu appunto Menia, era approdata sui banchi di Montecitorio il 6 febbraio 2003; fu approvata l’anno dopo con il consenso bipartisan di tutte le forze parlamentari (solo 15 i no, arrivati dall’area della sinistra estrema), promulgata il 30 marzo 2004 e pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” il 13 aprile.
Dieci anni fa rappresentò il punto di arrivo nel riconoscimento pubblico di una delle tragedie del ’900 troppo a lungo rimosse dalla memoria collettiva e dalle pagine di storia nazionale. Arrivarci non fu facile: materia spinosa e delicata per i governi, rimossa dalle sinistre, strumentalizzata dalle destre, praticamente ignota agli italiani dello Stivale – a eccezione delle regioni giuliane –, oggetto di studio di uno sparuto gruppo di storici e cultori del passato e di queste terre. Soltanto dopo la caduta della “cortina di ferro”, mutato il contesto geopolitico dopo la dissoluzione del blocco comunista e la fine della Jugoslavia, sarà possibile avviare una più ampia analisi e riflessione su quella tragedia.
Atto di riconciliazione
Incontriamo Roberto Menia a Trieste, tra alcune delle masserizie degli esuli giuliano-dalmati, scegliendo un luogo simbolico per parlare del decennale della Legge: il Civico Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata, con le testimonianze di ciò che fu tale civiltà e delle sue tragedie. Sullo sfondo, il blu della foiba stilizzata che fa parte del percorso dell’istituto di via Torino 8.
Ognuno di questi oggetti – dice Menia indicando le alcune delle masserizie recuperate dall’IRCI dai magazzini del Porto Vecchio di Trieste ed esposte al Museo di via Torino – parla della nostra storia e io mi sento profondamente italiano di queste terre. Parliamo dell’istituzione del 10 febbraio.
Dopo l’approvazione della Legge dichiarò che quella era stata la battaglia più bella della sua vita. La pensa ancora così?
Senza ombra di dubbio. Per me, come dissi anche al momento dell’approvazione, della dichiarazione finale della legge, è stato un atto fondamentale di riconciliazione della nazione italiana, un atto di riscoperta della memoria, di una pagina che molti non conoscevano. Poi, sotto il profilo familiare e personale, è stato una sorta di tributo dedicato a tutti quelli che non ci sono più e che per anni si sono portati dietro la croce di queste vicende. Vicende che non potevano più essere una questione minore, quasi privata, ma dovevano entrare nella storia collettiva di tutti gli italiani. Era maturato l’humus giusto
Come si arrivò alla legge, qual era il clima che si respirava all’epoca in Parlamento?
Innanzitutto va detto che era un’iniziativa che partiva da lontano. Anche in passato avevo presentato proposte di legge a favore di esuli e vittime delle foibe. Non dimentichiamo che la Legge del Ricordo abbina, in realtà, due leggi. Quella che istituisce il 10 febbraio e l’altra che concede un riconoscimento, una medaglia ai famigliari degli infoibati. Già nella precedente legislatura di centro-sinistra, con Violante presidente della Camera (1996 – 2001, ndr), eravamo quasi arrivati all’approvazione di una legge che concedeva un riconoscimento ai familiari degli infoibati. Fu respinta l’ultimo giorno della legislatura.
La legge riprese il cammino nella legislatura successiva. Alla guida c’era il centro-destra, e c’era un humus più favorevole alla mia proposta. Ma devo dire che trovai anche dall’altra parte un’apertura più vasta, in quanto pure nel centro-sinistra molte cose erano cambiate nel frattempo, tant’è che alla fine votò contro solo un’esigua minoranza, la parte della sinistra più estrema. Che sono poi gli stessi che portano avanti le campagne negazioniste, che improvvidamente vanno a fare il loro contro-10 febbraio, affermando o che si tratta di falsi, o che il fatto non è avvenuto o che se anche è capitato si è trattato di cose giustificabili, di vendette per i crimini dei fascisti. Cose che trovo riprovevoli e moralmente ributtanti.
È soddisfatto dei contenuti che il Giorno del Ricordo ha assunto nel corso di questi dieci anni?
Sì, sono soddisfatto perché mi rendo conto che dall’approvazione della Legge in poi si sono schiuse tante porte, si sono ampliati gli studi su queste vicende, molti hanno aperto gli occhi, molto hanno conosciuto fatti che fino ad allora non capivano… Cito a esempio il caso Simone Cristicchi. È un cantautore romano che scopre questa vicenda quasi per caso, si commuove di fronte alle masserizie degli esuli, ed essendo un artista ne fa uno spettacolo nazional-popolare, che si rivolge a tanta gente, a quelli che non hanno nessuna intenzione né di venire ad ascoltare le conferenze né di studiare il passato, promuove di fatto la conoscenza della storia e della cultura di queste terre. Ecco, se non ci fosse stata l’approvazione di quella legge non ci sarebbe stato Cristicchi, non ci sarebbero stati gli studi all’Università, l’intervento del presidente della Repubblica e tante altre iniziative. È stata una vittoria morale. Dunque, la Legge del Ricordo ha segnato una vittoria morale, il riconoscimento di una vicenda, di una storia a lungo sottaciuta e misconosciuta. Ed è la cosa più importante. Perché alla fine cosa resta del cammino di un popolo se non le sue realizzazioni, la sua cultura, la sua lingua, le sue storie?
Crede che la vicenda degli italiani dell’Adriatico orientale sia entrata effettivamente nella memoria collettiva degli italiani?
Sicuramente si stanno recuperando pagine strappate. Prima c’era una totale disconoscenza da parte di tutti gli italiani. Andavi oltre Monfalcone e non capivano di cosa parlavi. Non ne parlavano, fino a pochi anni fa, i manuali di storia. Oggi invece questa parte del nostro passato si studia nelle scuole. Indubbiamente si sono ottenuti dei risultati importanti, soprattutto in termine di coscienza nazionale. Certo, non è mai il massimo, ma il bene assoluto non è di questa terra…Ma coscienza nazionale vuol dire anche saper proiettare tutte queste vicende oltre il solo ricordo. È giusto che si conoscano le sofferenze indicibili, le stragi, le foibe, l’esodo e tutto ciò che è collegato a essi, ma credo che occorra conoscere anche tutto quello che ci sta dietro, ossia le città e le terre dalle quali gli esuli se ne sono andati. Quindi, io dico agli italiani, quando passate questo confine, quando riconoscete i leoni di San Marco, gli archi romani, cominciate anche a riappropriarvi dei nomi italiani delle città. Per me anche questo è riprendere memoria nazionale e risseminare italianità. E gli italiani devono pensare che sia giusto risseminare italianità. Dove risseminare italianità significa ricominciare a chiamare le città con il loro nome, vuol dire parlare la tua lingua e aiutare quelli che ancora la parlano.
Dal suo punto di vista, qual è la cosa più bella e più giusta che è scaturita dalla Legge?
Diventando grande, adulto, scopro che la bellezza spesso è nascosta nelle piccole cose, come ci insegna Pascoli. Direi che la cosa più bella legata alla Legge sia il sentimento di giustizia e di quest’italianità che rimane presente anche in coloro che sono di seconda, terza generazione, che ricordano dove abitava suo nonno e come parlava. In Croazia e Slovenia la Legge non fu accolta bene. Le affermazioni del presidente Napolitano sulla pulizia etnica ai danni degli italiani, furono aspramente criticate dal suo omologo croato Stipe Mesić, secondo il quale le foibe non erano altro che “una reazione ai crimini fascisti”. Una linea presente pure in Italia.
È una linea destinata alla sconfitta storica, morale, umana. C’è chi ritiene di fare il negazionismo della Shoah, ma di fronte all’umanità è un perdente, un pazzo. Per quanto ci riguarda, la cosa è uguale. È difficile che qualcuno venga a casa mia a dire che è falso quello che racconto. Chi nega dovrebbe vergognarsi soltanto a parlarne. È una battaglia, la sua, rancorosa, sbagliata, destinata alla sconfitta. E questo vale tanto per chi la fa sotto il profilo storico, quanto per chi lo fa sotto il profilo politico e nazionale. Per il presidente croato, che senso ha, da parte sua, prendere le difese di quella indifendibile parte della storia della Jugoslavia comunista, lui che è fuoriuscito da tutt’altra realtà, dalla Croazia? Capisco che si sommano, è logico, due piani diversi, uno è nazionale e l’altro è quello politico. È del tutto evidente che resteranno le ruggini, i rancori, ma la nostra storia è certificata dalle carte geografiche, dai documenti, dai marmi, dalle tombe… È difficile sostenere che gli italiani non c’erano. Se poi si vuole legittimare la propria presenza falsificando la storia, uno può anche divertirsi a raccontare che Marco Polo era croato, ma è smentito dalla realtà delle cose. Mi rendo conto che laddove ci sono state terre contese, sangue sparso, ognuno ha le sue memorie e i suoi giudizi, ognuno tende a narrare la sua storia ed è impossibile che le memorie siano condivise. Però è fondamentale imparare il rispetto per le memorie di ognuno, il che vuol dire che tutto si può sostenere, purché non si contrabbandino tesi insostenibili e si vadano a contraffare pezzi di storia e di cultura. Questo è inammissibile.
Con la scomparsa fisiologica della comunità degli esuli, ma anche di quella dei rimasti in fin dei conti, c’è il rischio di perdere irrimediabilmente pezzi della nostra memoria, che non sono scritti nei libri?
È una delle cose che dicevo fin da piccolo a mia mamma. È anche questa una delle mie battaglie di sempre, e non di rado sono stato preso in giro perché andavo a rievocare il passato, mi dicevano di lasciar perder. Oggi siamo appena in tempo per conservare tutto ciò, che è un portato non solo di storie ma di cultura, che va difeso e attualizzato. Tramandare la memoria ai nostri figli, a chi verrà dopo di noi è compito anche di istituti come questo, l’Istituto regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata, che lo svolge più che egregiamente.
Molti esuli non hanno trasmesso la nostra storia ai loro figli. Lei ne parla con la sua bambina?
Sì, le racconto la nostra storia perché voglio che la conosca. Le insegna ad amare il nostro tricolore, ad amare la sua patria e la sua terra, quelle che sono le sue radici, qual era la città di suo nonno, come si chiamava una volta e perché oggi si chiama diversamente. Credo che ognuno debba essere fiero e orgoglioso di tutto quello che gli è stato dato e trasmetterlo con lo stesso orgoglio e fierezza a chi viene dopo. Per me è giusto che sia così. Altrimenti siamo solo un atomo di passaggio nella storia altrui
Fonte: di Ilaria Rocchi, 1/2/14